Aggiornamento - Amministrativo |
CONSIGLIO
DI STATO, ADUNANZA PLENARIA – ordinanza 4
marzo 2015 n. 2, principi della CEDU e giudicato Ritenuto
in fatto: 1. Con
ricorso proposto davanti a questo Consiglio di Stato i ricorrenti, meglio
indicati in epigrafe, chiedono la revocazione della
sentenza dell’Adunanza Plenaria n. 4 del 22 febbraio 2007. 2. I
ricorrenti hanno svolto dal 1983 al 1997 funzioni assistenziali
presso il Policlinico dell’Università degli Studi di Napoli Federico II
sulla base di contratti a termine aventi ad oggetto l’esplicazione di
attività professionale remunerata a gettone. Successivamente,
i detti sanitari venivano assunti a tempo indeterminato dallo stesso
Policlinico con inquadramento nella categoria del personale non docente di
“elevata professionalità”. 3. Con
ricorsi proposto davanti al Tar Campania nel 2004 i ricorrenti –
rifacendosi ad una giurisprudenza consolidata sul
punto e avente ad oggetto casi analoghi – chiedevano il riconoscimento ab origine dell’esistenza di un rapporto di lavoro
dipendente con l’Università affermando che la qualificazione di
“attività professionale” attribuita ai compiti espletati
dissimulava un vero e proprio rapporto di lavoro subordinato. Si chiedeva
quindi il riconoscimento del diritto al versamento dei relativi contributi
previdenziali. Il Tar
campano accoglieva in parte il ricorso rilevando che i medici gettonati, per
i caratteri dell’attività che avevano espletato
andassero assimilati ai “ricercatori universitari” non ponendosi
quindi problemi in ordine alla sussistenza della giurisdizione del giudice
amministrativo. 4.
Diversamente, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato,
pronunciandosi in sede di appello con la sent. n. 4/2007, riteneva
applicabile alla controversia l’art. 45, co. 17 del D.lgs
n. 80 del 1998 (poi confluito nell’attuale art. 69, co.
7. del T.U. n. 165 del 2001) il quale disponeva per le liti relative al pubblico impiego “privatizzato”
che “le controversie relative a questioni attinenti al periodo del
rapporto anteriore al 30 giugno 1998 restano attribuite alla giurisdizione
esclusiva del giudice amministrativo se proposte, a pena di decadenza, entro
il 15 settembre Nulla
espressamente prevede detta norma circa la sorte delle controversie proposte successivamente a tale data. Ed invero, alle
origini la giurisprudenza aveva ritenuto che la disposizione fosse rivolta a
fissare la giurisdizione del giudice ordinario per i ricorsi proposti dopo la
data del 15 settembre 2015. Tuttavia, successivamente
è prevalso, nella giurisprudenza della Corte di Cassazione ed in quella
amministrativa, il diverso orientamento che ricollegava alla scadenza di tale
termine la radicale perdita del diritto a far valere, in ogni sede, ogni tipo
di contenzioso. Anche L’Ad. Plen.
n. 4/2004 cit. si uniformava a tale ultimo indirizzo e, nel caso di specie,
pronunciava l’inammissibilità per tardività di tutti i ricorsi
originariamente proposti in primo grado dopo il 15 settembre 2000 annullando
le sentenze del Tar. Per il solo ricorrente che invece aveva proposto il
proprio ricorso anteriormente alla detta data,
l’Adunanza Plenaria riconosceva sussistente la giurisdizione del
giudice amministrativo e confermava anche nel merito la sentenza del Tar
campano. 5. Alcuni dei
ricorrenti soccombenti nel giudizio di appello definito con la detta Ad. Plen. n. 4/2004 ricorrevano
alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. I giudici europei, con due
sentenze del 4 febbraio 2014 (Staibano c. Italia e Mottola c. Italia) divenute definitive il 4 maggio 2014,
riconoscevano sussistere una violazione degli obblighi convenzionali commessa
dallo Stato italiano. In sintesi, In secondo
luogo, Relativamente
invece alla domanda di “equa soddisfazione” formulata dai
ricorrenti ai sensi dell’art. 41 della Carta
CEDU, 6. Alla luce
delle dette sentenze della corte di Strasburgo, gli odierni ricorrenti
– soccombenti nel giudizio di appello definitosi con sent. Ad. Plen. n. 4/2007 e alcuni dei
quali parti del giudizio instauratosi davanti la corte di Strasburgo –
si rivolgono ora a questo Consiglio di Stato chiedendo la revocazione della
sentenza n. 4/2007 cit. 6.1 Con
riguardo all’ammissibilità del ricorso per revocazione, i ricorrenti
chiedono che questo Collegio dia un’interpretazione costituzionalmente
orientata di detta disposizione e degli artt. 106 c.p.a. e 395 e 396 c.p.c. I ricorrenti
richiamano al riguardo la sentenza della Corte cost.
n. 113 del 7 aprile 2011 che in materia penale ha dichiarato
l’illegittimità costituzionale dell’art. 630 c.p.p.
“nella parte in cui non prevede un diverso caso di revisione della
sentenza penale o del decreto penale di condanna al fine di conseguire la
riapertura del processo quando ciò sia necessario, ai sensi dell’art.
46, par. 1 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo
e delle libertà fondamentali, per conformarsi ad una sentenza definitiva
della Corte Europea dei diritti dell’uomo”. I ricorrenti
ritengono pertanto che, analogamente a quanto previsto nella disciplina del
processo penale a seguito della sentenza additiva della Corte costituzionale
del 2011, anche nel processo amministrativo debba ammettersi la revocazione
della sentenza passata in giudicato e che ciò discenderebbe da una lettura
costituzionalmente orientata degli artt. 106 c.p.a. e 395 e 396 c.p.c. In via
subordinata, i ricorrenti chiedono che si sollevi questione di legittimità
costituzionale dell’art. 106 c.p.a
e degli artt. 395 e 396 c.p.c. per violazione degli
artt. 111 e 117, co. 1 Cost. 6.2 Nel merito del ricorso per revocazione, i ricorrenti chiedono al
Consiglio di Stato di “prendere atto della sentenza della Corte europea
per i diritti umani e da essa trarre tutte le conseguenze che,
nell’ordinamento italiano, ne derivano ai sensi dell’art. 117, co. 1, Cost come interpretato dalla Corte costituzionale. Si
chiede, pertanto, in conformità al sistema di tutela dei diritti
convenzionali previsto come interpretato dalla Corte europea, che i
ricorrenti vengano rimessi nei termini di legge e
che a loro venga applicato l’art. 45, co. 17
del decreto legislativo n. 80 del 1998, oggi art. 69
co. 7 del T.U. n. 165/2001, nella
sola interpretazione resa possibile dalla sentenza della corte europea, e
cioè nel senso della perdurante giurisdizione amministrativa, delle
controversie riguardanti vicende del pubblico impiego, precedenti la
traslazione della giurisdizione”. Pertanto, i
ricorrenti chiedono che il giudice amministrativo dia “una diretta
applicazione al giudicato della corte europea” senza passare per il
controllo di costituzionalità (sul punto i ricorrenti richiamano il precedente
Corte Cass. SS.UU. 19
luglio 2002 n. 10542) della norma ora contenuta nel d.lgs n. 165/2001. In via
subordinata, chiedono i ricorrenti che questo Collegio sollevi
questione di legittimità costituzionale della disposizione di cui
all’art. 69 co. 7 del T.U.
n. 165/2001 per contrasto con gli artt. 11 e 117 1. co.
Cost. 6.3. Così
riconosciuta la giurisdizione del giudice amministrativo, i ricorrenti
insistono affinché il rapporto professionale da loro instaurato con
l’Università dal 1983 al 1997 venga dichiarato
nullo ex art. 2126 c.c. per violazione dei principi generali in tema di
assunzione dei pubblici dipendenti determinando il sorgere del diritto al
pagamento di tutte le differenze retributive e previdenziali. Concludono i
ricorrenti chiedendo la revocazione della sentenza n. 4/2007 e, nel merito,
il rigetto degli appelli allora proposti dalle Amministrazioni e la conferma
delle sentenze del Tar campano che aveva condannato le Amministrazioni
convenute al pagamento della contribuzione previdenziale e
dell’indennità di fine rapporto. 7. Si è
costituito in giudizio l’INPS. L’Istituto
ritiene inammissibile il ricorso per revocazione in quanto
non rientra in alcuno dei casi contemplati dall’art. 106 c.p.a., sostenendo che il giudicato interno non possa
essere travolto da una pronuncia della Corte di Strasburgo. Con riferimento
alla presunta illegittimità costituzionale dell’art. 69
co. 7 del d.lgs. n. 165/2001, ritiene l’INPS
che la stessa è inammissibile in quanto
“andava sollevata nel giudizio amministrativo di merito” e che
comunque sulla legittimità costituzionale della disposizione 8. Si è
costituita in giudizio l’Università degli studi di Napoli Federico II.
L’Università sostiene l’inammissibilità del ricorso per
revocazione in quanto non ricorrerebbero i
presupposti ex art. 106 c.p.a. Con riferimento alla
presunta illegittimità costituzionale di detto articolo, l’Ente ritiene
la questione di costituzionalità inammissibile ed infondata in quanto non
supererebbe il vaglio della rilevanza, dal momento che “la riapertura
del processo non consentirebbe all’Adunanza Plenaria di entrare nel
merito del giudizio reinterpretando il disposto dell’art. 69 D.lgs. n.
165/2001” e, inoltre, “non essendovi stato né essendo in alcun
modo sollecitato un intervento del legislatore in tema di revocazione delle
sentenze del giudice ordinario e/o amministrativo all’esito della
richiamata pronuncia della Corte europea dei diritti dell’uomo, Nel merito
del ricorso, l’Università ritiene che il Consiglio di Stato non possa
autonomamente disapplicare l’art. 69 co. 7 del d.lgs
165/2001 qualora ritenuto in contrasto con 9. Alla
pubblica udienza del 28 gennaio Considerato
in diritto: 10. Deve in
primo luogo esaminarsi l’ammissibilità del ricorso per revocazione
proposto. Sul punto, il Collegio ritiene rilevante e non manifestamente
infondata la questione di legittimità costituzionale avente ad oggetto l’art. 106 c.p.a.
e gli artt. 395 e 396 c.p.c. 11. Si deve
anzitutto chiarire che questo Consiglio di Stato, così come ogni giudice
comune, non può autonomamente disapplicare la norma interna che ritenga
incompatibile con Infatti,
nonostante taluni orientamenti giurisprudenziali e dottrinari di segno
contrario, il giudice delle leggi ha più volte chiarito come sulle norme
interne contrastanti con le norme pattizie internazionali,
ivi compresa Le norme
della CEDU, così come interpretate dalla Corte di Strasburgo, assumono
rilevanza nell’ordinamento italiano quali norme interposte. Alla CEDU è
riconosciuta un’efficacia intermedia tra legge e Costituzione, volta ad integrare il parametro di cui all’art. 117 co.1 Cost. che vincola i legislatori nazionali, statale e
regionali, a conformarsi agli obblighi internazionali assunti dallo Stato. Tale
posizione non muta anche a seguito dell’entrata in vigore del Trattato
di Lisbona che all’art. 6 prevede una adesione
dell’Unione Europea alla Convenzione CEDU. Anche tale innovazione non
ha “comportato un mutamento della collocazione
delle disposizioni della CEDU nel sistema delle fonti, tale da rendere ormai
inattuale la concezione delle norme interposte” (Corte cost. n.
80/2011). Di
conseguenza, qualsiasi giudice, allorché si trovi a
decidere di un contrasto tra Rimane salva
l’interpretazione “conforme alla convenzione”, e quindi conforme agli impegni internazionali assunti
dall’Italia, delle norme interne. Tale interpretazione, anzi, si rende
doverosa per il giudice che, prima di sollevare un’eventuale questione
di legittimità, è tenuto ad interpretare la
disposizione nazionale in modo conforme a costituzione (ex multis, Corte cost., 24 luglio 2009, n. 239, punto 3 del
considerato in diritto). 12. Nel caso
ora in esame, risulta esservi una tensione tra le
norme interne che disciplinano la revocazione della sentenza amministrativa
passata in giudicato e l’obbligo assunto dall’Italia di
conformarsi alle decisioni della Corte di Strasburgo (art. 46 CEDU). Infatti, allorché, come nel caso di specie, i giudici europei
abbiano accertato con sentenza definitiva una violazione dei diritti
riconosciuti dalla Convenzione, sorge per lo Stato l’obbligo di
riparare tale violazione adottando le misure generali e/o individuali
necessarie. La finalità di tali misure è quella della “restitutio in integrum”
in favore dell’interessato, ossia porre il ricorrente in una situazione
analoga a quella in cui si troverebbe qualora la violazione non vi fosse
stata (cfr. Corte cost. 113/2011 e la giurisprudenza
CEDU ivi richiamata). Nel caso in
cui, la violazione commessa dallo Stato sorga proprio a causa della sentenza
passata in giudicato, anche in questo caso non viene meno l’obbligo per
lo Stato, complessivamente considerato, di conformarsi alla
sentenze di Strasburgo. Sul punto, Tale obbligo
di riapertura dei processi iniqui è stato con maggior forza affermato dalle
istituzioni del Consiglio d’Europa con riferimento ai processi penali,
dove chiaramente i valori in gioco, in primis quello della libertà personale,
rendono del tutto intollerabile il perdurare di violazioni di diritti
fondamentali degli imputati e/o dei condannati
accertate in via definitiva dalla corte sovranazionale. Ciò ha portato molti
Stati aderenti alla Convenzione a prevedere la possibilità di riapertura dei
processi attraverso norme legislative o interventi giurisprudenziali. Anche
l’Italia si è posta in tale solco culminato con la sentenza della Corte
cost. n. 113/2011 che con sentenza additiva ha
previsto la possibilità di revisione del processo penale ex art. 630 c.p.p. qualora ciò si renda necessario per conformarsi ad
una sentenza definitiva della corte europea dei diritti umani. 13. Questo
Collegio ritiene che un contrasto tra le norme processuali interne e
l’obbligo gravante sullo Stato di conformarsi alle sentenze CEDU possa
sussistere anche nel caso di specie in cui è in discussione
l’ammissibilità del ricorso per la revocazione di una sentenza del
giudice amministrativo. Infatti, le
raccomandazioni del Consiglio d’Europa circa la riapertura dei
processi, seppur dedicano particolare enfasi al
processo penale, non escludono dall’ambito della raccomandazione stessa
i processi civili o amministrativi. Gli stati, infatti, sono incoraggiati a
“riaprire” i processi nel caso in cui ricorrano due condizioni:
a) la parte lesa continui a soffrire serie conseguenze negative a causa della
sentenza nazionale le quali non possono essere
adeguatamente rimediate attraverso la “just satisfaction”
accordata dalla Corte europea ex art 41 CEDU e non possono essere rimosse se
non attraverso una riapertura del processo stesso; b) 14. Nel caso
di specie, Qualora non
fosse ammissibile la revocazione del giudicato, l’ordinamento italiano
non fornirebbe ai ricorrenti alcuna possibilità per veder rimediata la
violazione dei diritti fondamentali dagli stessi subita. In
particolare, i ricorrenti si vedrebbero definitivamente negato il diritto di azionabilità delle proprie posizioni soggettive che
all’epoca tentarono di far valere davanti al giudice amministrativo.
Infatti, nel 2004 i ricorrenti si rivolsero al Tar per veder riconosciuti
diritti pensionistici che assumevano essere stati
lesi e quella vicenda processuale si concluse in grado di appello con la
sentenza dell’Adunanza Plenaria che riteneva il ricorso originariamente
proposto inammissibile in quanto proposto oltre il termine fissato dal
legislatore con l’art. 45 co. 17 del d.lgs n. 80/1998, ora trasfuso
in formulazione quasi identica nell’art. 69, co.7
del D.lgs. n. 165/2001, e che Qualora non
fosse rimovibile il giudicato, i ricorrenti si vedrebbero definitivamente
privati della possibilità di accedere ad un
tribunale e, quindi, della possibilità di far valere i diritti pensionistici
che assumono essere loro spettanti. Peraltro, sul punto Peraltro,
incidentalmente si evidenzia che, sebbene Anche davanti
al giudice amministrativo, così come a quello civile, viene in rilievo la
tutela di diritti fondamentali che, in caso di vizi processuali o
sostanziali, possono essere compressi o limitati in modo da non risultare tollerabile per uno stato di diritto e generare
una responsabilità dello Stato per violazione degli obblighi convenzionali
assunti. Qualora Infatti,
molti Stati aderenti alla Convenzione hanno previsto la possibilità di
riaprire i processi non solo in ambito penale ma anche civile ed amministrativo (ad es. in Germania è stata di recente introdotta
al riguardo un’apposita disposizione all’art. 580 del Zivilprozessordnung). 15. Ritiene,
pertanto, questo Collegio che le norme processuali nazionali che disciplinano
i casi di revocazione delle sentenze del giudice amministrativo – i.e.
l’art. 106 c.p.a. e,
in quanto richiamato dallo stesso, gli artt. 395 e 396 c.p.c.
– si pongano in tensione con il vincolo per il legislatore statale di
rispetto degli obblighi internazionali sancito dall’art. 117 co. 1 Cost. e che, nel caso di specie, viene in rilievo
con riferimento all’impegno assunto dallo Stato – con la legge di
ratifica ed esecuzione 4 agosto 1955, n. 848 – di conformarsi alle
sentenze della Corte di Strasburgo. Infatti, non
contemplando tra i casi di revocazione quella che si renda necessaria per
conformarsi ad una sentenza definitiva della Corte
europea dei diritti dell’uomo, le norme processuali appaiono in
contrasto con l’art 46 CEDU che, invece, sancisce tale obbligo per gli
Stati aderenti. Altresì,
l’assenza nell’ordinamento italiano di un apposito
rimedio volto a “riaprire” il processo giudicato
“iniquo” dalla Corte europea sembra potersi porre in contrasto
con i principi sanciti dall’art. 111 Cost. e (ritiene di dover
aggiungere questo Collegio, in aggiunta alle prospettazioni
di parte ricorrente) con l’art. 24 Cost. Infatti, le garanzie di azionabilità delle posizioni soggettive e di equo
processo previste dalla nostra Costituzione non sono inferiori a quelle
espresse dalla CEDU e può argomentarsi un contrasto tra le dette norme costituzionali
e le previsioni legislative che non consentono la revocazione del giudicato
di cui è stata accertata in sede CEDU l’ “ingiustizia” per
violazione di un diritto fondamentale come quello di accesso ad un Tribunale. 16. Come
sopra detto, questo Collegio non può autonomamente disapplicare le norme
interne incompatibili con 17. Ritiene,
dunque, il Collegio di dover sollevare questione di legittimità
costituzionale degli artt. 106 c.p.a.
e 395 e 396 c.p.c. in relazione agli artt. 117 co.1, 111 e 24 Cost nella parte
in cui non prevedono un diverso caso di revocazione della sentenza quando ciò
sia necessario, ai sensi dell’art. 46 par. 1, della Convenzione europea
dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, per conformarsi ad
una sentenza definitiva della Corte europea dei diritti dell’uomo. La questione
è rilevante nel presente giudizio in quanto dalla
soluzione della stessa dipende l’ammissibilità del ricorso per
revocazione proposto. La rilevanza
della questione non viene meno alla luce del fatto che Per quanto
sopra detto, inoltre, la questione non appare manifestamente infondata. In
conclusione, il presente giudizio deve essere sospeso e gli atti vanno
trasmessi alla Corte Costituzionale. P.Q.M. Il Consiglio
di Stato in sede giurisdizionale (Adunanza Plenaria), non definitivamente
pronunciando sul ricorso in epigrafe, visti gli artt. 134
Cost., art. 1 della l. cost. 9 febbraio 1948, n. 1, art 23 della l. 111 marzo
1953 n. 87, dichiara rilevante e
non manifestamente infondata la questione di costituzionalità degli artt. 106
del Codice del processo amministrativo (L. n. 104/2010) e 395 e 396 del
Codice processuale civile, in relazione agli artt. 117 co.1,
111 e 24 della Costituzione, nella parte in cui non prevedono un diverso caso
di revocazione della sentenza quando ciò sia necessario, ai sensi
dell’art. 46, par. 1, della Convenzione europea dei diritti
dell’uomo e delle libertà fondamentali, per conformarsi ad una sentenza
definitiva della Corte europea dei diritti dell’uomo. Dispone la
sospensione del presente giudizio e ordina la immediata
trasmissione degli atti alla Corte costituzionale. Ordina che a
cura della Segreteria dell’Adunanza Plenaria la presente ordinanza sia
notificata alle parti in causa ed al presidente del
Consiglio dei Ministri, nonché comunicata ai Presidenti della Camera dei
deputati e del Senato della Repubblica. Riserva alla
decisione definitiva ogni ulteriore statuizione in
rito, nel merito ed in ordine alle spese. Così deciso
in Roma alla pubblica udienza del giorno 28 gennaio 2015 con
l’intervento dei magistrati: DEPOSITATA IN SEGRETERIA il 04/03/2015
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